La Tisana del Cuore

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Fiabe e Leggende

Racconti del Cuore


"Qualche volta la gente inciampa nella verità. La maggior parte però si rialza subito e se ne va come niente fosse."

Winston Churchill



"E' possibile che il messaggio non giunga a destinazione, ma ciò non significa che sia inutile inoltrarlo."

Segaki





La storia di Kisagotami

All'epoca del Buddha, a una donna di nome Kisagotami morì l'unico figlio. Incapace di accettare la perdita, Kisagotami consultò innumerevoli persone per trovare una medicina che riportasse in vita il ragazzo. Si diceva che il Buddha possedesse il miracoloso rimedio.
La donna allora andò da lui, gli rese omaggio e domandò: Hai un medicamento che riporti in vita mio figlio?
Ne conosco uno, rispose il Buddha, ma per prepararlo devo avere determinati ingredienti.
Sollevata, Kisagotami chiese: Di quali ingredienti hai bisogno?
Portami un pugno di senape disse lui.
La donna promise di procurarglieli, ma prima che se ne andasse il Buddha aggiunse: Bisogna che i semi di senape siano prelevati da una famiglia in cui non siano morti né figli, né coniugi, né genitori, né servitori.
Lei annuì e andò di casa in casa alla ricerca di quanto richiesto. Dappertutto la gente si mostrò disposta a darle i semi, ma quando Kisagotami si informò sugli eventuali lutti, non trovò alcuna casa a cui la morte non avesse fatto visita: in una era deceduta una figlia, in un'altra un domestico, in altre ancora il marito o un genitore. La donna non rinvenne una sola famiglia risparmiata dalla sofferenza della morte. Vedendo che non era sola nel suo dolore, depose il corpo esanime del figlio e tornò dal Buddha, il quale disse con grande compassione: Credevi di essere l'unica ad avere perso un figlio, ma la legge della morte è che in nessuna creatura vivente vi è permanenza.

(tratto da "L'arte della felicità"
- Dalai Lama con H.C.Cutler)





Aneddoto sul mistico Sufi Gialal al-Din Rumi

Una donna con un bambino andò da lui e gli disse: «Maulana, Maestro… ho tentato in tutti i modi, ma questo bambino non vuole ascoltare. Mangia troppo zucchero. E so che c’è solo una soluzione: se tu gli dici qualcosa, ti ascolterà, perché ti rispetta. Non capisce cosa sei o chi sei, ma ti rispetta. E quando gli ho detto: “Vieni con me dal Maulana…”, m...i ha risposto: “Okay, se me lo dirà lui, smetterò”».
Rumi guardò il bambino, notò la sua fiducia. Gli disse: «Aspetta, torna tra tre settimane».
La donna era perplessa. Una cosa così semplice. E Rumi era conosciuto in ogni parte del mondo. La gente veniva dai Paesi più lontani per sottoporgli grandi problemi, e lui li risolveva immediatamente, e ora per una cosa tanto stupida… Avrebbe potuto dire: «È vero, non mangiare più così tanto zucchero» e la faccenda sarebbe stata chiusa. Tre settimane?
La madre tornò con il bambino dopo tre settimane e Rumi disse: «Aspetta ancora tre settimane».
La madre replicò: «Cos’è questa storia?», ma Rumi disse: «Aspetta ancora, torna fra tre settimane».
Quando ritornarono, disse al bambino: «Okay, ascolta. Smettila di mangiare zucchero».
Il bambino rispose: «Va bene, smetterò».
La madre interloquì: «A questo punto nel mio cuore è nata una domanda che non mi darà pace. Perché ci hai messo sei settimane?»
Rumi disse: «Io stesso amo lo zucchero, come potevo dare un consiglio a questo bambino? Non sarebbe stato onesto. Quindi, per tre settimane ho cercato di smettere – e non ci sono riuscito. Poi ho ritentato per altre tre settimane, e ce l’ho fatta. Adesso posso dire: “Ti prego, puoi smettere anche tu. Guarda, io sono un vecchio – perfino io sono riuscito a smettere. Tu sei un bambino, un ragazzo molto giovane, puoi fare qualunque cosa”».




C'era una volta, un punto interrogativo.
Era molto grazioso e, come tutti i punti interrogativi, aveva l'aria molto intelligente.
Da un po' di tempo, però, girava per il paese sconsolato, amareggiato, deluso e depresso.
Apparentemente, nessuno lo voleva più! Tutti ricorrevano, con sempre maggiore frequenza, al suo nemico acerrimo:
il punto esclamativo!
Tutti gridavano: «Avanti! Fermi! Muoviti! Togliti dai piedi!». Il "punto esclamativo" è tipico dei prepotenti, e oramai i prepotenti dominano il mondo. Anche per le strade e le vie cittadine, dove un tempo il "punto interrogativo" si sentiva un re, non c'era più nessuno che chiedeva: «Come stai?»; sostituito da: «Ehilà!».
Non c'era più nessuno che fermava l'auto, abbassava il finestrino e chiedeva: «Per favore, vado bene per Bergamo?». Ora, usavano tutti il "navigatore satellitare", che impartisce gli ordini con decisione: «Alla prima uscita, svoltare a destra!». Stanco di girovagare, si rifugiò in una famiglia. I bambini hanno sempre amato i punti interrogativi. Ma, anche là, trovò un padre ed un figlio adolescente, che duellavano tutto il giorno, con i punti esclamativi...
«Non mi ascolti mai!».
«Non m'importa che cosa pensi! Qui comando io!».
«Basta! Me ne vado per sempre!».
Alla fine, il padre era spossato e deluso; il figlio mortificato e scoraggiato, quindi aggressivo.
E soffrivano, perché non c'è niente di più lacerante, che essere vicini fisicamente e lontani spiritualmente.
Il punto interrogativo si appostò sotto il lampadario, ed alla prima occasione entrò in azione... Accigliato e con i pugni chiusi, il padre era pronto allo scontro, ma dalla sua bocca uscì un: «Che ne pensi?», che stupì anche lui.
Il figlio tacque, sorpreso. «Davvero lo vuoi sapere, papà?». Il padre annuì. Parlarono.
Alla fine, dissero quasi all'unisono: «Mi vuoi ancora bene?».
Il "punto interrogativo", felice, faceva le capriole sopra il lampadario!


Bruno Ferrero




Il conto

Preoccupato del senso della vita e dell'ultimo giorno, e soprattutto del Giudizio Finale, a cui prima o poi certamente sarebbe andato incontro, un uomo fece un sogno. Dopo la morte, si avvicinò titubante alla grande porta della Casa di Dio. Bussò, ed un angelo sorridente venne ad aprire. Lo fece accomodare nella sala d'aspetto del Paradiso.
L'ambiente era molto severo. Aveva il vago aspetto di un'aula di tribunale. L'uomo aspettava, sempre più intimorito.
L'angelo tornò dopo un po' con un foglio in mano, su cui, in alto, campeggiava la parola «conto». L'uomo lo prese e lesse: «Luce del sole e stormire delle fronde, neve e vento, volo degli uccelli ed erba. Per l'aria che abbiamo respirato e lo sguardo alle stelle, le sere e le notti ...». La lista era lunghissima.
«... Il sorriso dei bambini, gli occhi delle ragazze, l'acqua fresca, le mani ed i piedi, il rosso dei pomodori, le carezze, la sabbia delle spiagge, la prima parola del tuo bambino, una merenda in riva ad un lago di montagna, il bacio di un nipotino, le onde del mare...». Man mano che proseguiva nella lettura, l'uomo era sempre più preoccupato.
Quale sarebbe stato il totale? Come, e con che cosa, avrebbe mai potuto pagare tutte quelle cose che aveva avuto? Mentre leggeva con il batticuore, arrivò Dio. Gli batté una mano sulla spalla. «Ho offerto io!», disse ridendo,
«Fino alla fine del mondo… È stato un vero piacere!».

Bruno Ferrero (tratto da "I fiori semplicemente fioriscono" edito da Elledici)




Un asceta sedeva meditando in una caverna.

Gli si avvicinò un topino e si arrampicò sul sandalo.
L'asceta aprì contrariato gli occhi: "Perchè mi disturbi nella mia meditazione?"
"Ho fame", si lagnò il topo.
"Và via, stupido topo", lo ammonì l'asceta,
"io cerco l'unione con Dio, come pu venirti in mente
di disturbarmi!".
"Come pensi di poterti unire a Dio", chiese allora il topo,
"se non sei unito neppure a me?".




Una breve storia zen: Il Saggio e le Domande

C'era una volta un vecchio saggio seduto ai bordi di un'oasi all'entrata di una città del Medio Oriente.
Un giovane si avvicinò e gli domandò:
"Non sono mai venuto da queste parti. Come sono gli abitanti di questa città?"
L'uomo rispose a sua volta con una domanda:
"Come erano gli abitanti della città da cui venivi?"
"Egoisti e cattivi. Per questo sono stato contento di partire di là".
"Così sono gli abitanti di questa città!", gli rispose il vecchio saggio.
Poco dopo, un altro giovane si avvicinò all'uomo e gli pose la stessa domanda:
"Sono appena arrivato in questo paese. Come sono gli abitanti di questa città?"
L'uomo rispose di nuovo con la stessa domanda:
"Com'erano gli abitanti della città da cui vieni?".
"Erano buoni, generosi, ospitali, onesti. Avevo tanti amici e ho fatto molta fatica a lasciarli!".
"Anche gli abitanti di questa città sono così!", rispose il vecchio saggio.
Un mercante che aveva portato i suoi cammelli all'abbeveraggio aveva udito le conversazioni e quando il secondo giovane si allontanò si rivolse al vecchio in tono di rimprovero:
"Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda posta da due persone?
"Figlio mio", rispose il saggio, "ciascuno porta nel suo cuore ciò che è.
Chi non ha trovato niente di buono in passato, non troverà niente di buono neanche qui.
Al contrario, colui che aveva degli amici leali nell'altra città,troverà anche qui degli amici leali e fedeli.
Perché, vedi, ogni essere umano è portato a vedere negli altri quello che è nel suo cuore.




La maniera di dire le cose

Un mattino, come spesso accadeva, il califfo Harun al-Rashid chiamò un indovino e gli raccontò il seguente sogno: ” Ho sognato che i miei denti cadevano l’uno dopo l’altro e alla fine la mia bocca restava senza denti. Cosa ne pensi?”
“Oh! Signore, non è un buon segno. Il sogno significa che i tuoi parenti moriranno prima di te e tu rimarrai solo!” gli disse l’indovino.
Il califfo si rattristò e si infuriò a tal punto che ordinò all’esperimento di non farsi più vedere. Quindi raccontò il sogno ad un’altro mago. Questi gli rispose: “Oh! mio signore, è un buon segno. Il sogno prevede che la tua vita sarà lunga e che tu sopravviverai ai tuoi parenti e camperai più di tutti!”.
Il califfo tutto contento disse:
“Che bel sogno!”, e diede cento denari all’ esperto che lo aveva interpretato così bene. Poi chiamò il visir e gli ordinò di cercare il primo indovino e di chiedergli scusa per come era stato cacciato dal palazzo. In fondo, il primo gli aveva rivelato la medesima cosa, ma aveva sbagliato la maniera di dirla.

Anche la verità più bruciante si può dire in modo gentile. La cortesia è l’intelligenza del cuore.

(Tratto da "Solo il vento lo sa" di Bruno Ferrero)




La Divinità nell’uomo


C’era un tempo in cui gli uomini erano simili agli Dei, ma abusarono talmente del proprio potere che Brahma, il Dio Supremo, decise di privarli della potenza divina nascondendola in un luogo a loro inaccessibile.
Pensò di consultare gli altri Dei per risolvere il problema. Alcuni degli Dei riuniti a consiglio dissero:
”Nasconderemo la divinità dell’uomo nelle profondità della terra”. Brahma rispose:
“Non è sufficiente, l’uomo scaverà e la troverà”.
Gli Dei dissero allora: ”Nasconderemo la divinità dell’uomo negli abissi oceanici”.
Brahma rispose ancora: “Non basta. L’uomo esplorerà le profondità dei mari e riuscirà a riportarla in superficie”.
Allora gli dei: “La nasconderemo sulla montagna più alta, quasi al limite del cielo, dove l’uomo non potrà arrivare”.
Brahma rispose ancora: “Non basta. L’uomo scalerà le montagne più alte e se ne impadronirà”. Allora gli dei conclusero:
“Non sappiamo dove nascondere la divinità dell’uomo, non c’è posto sulla terra, nel mare o nel cielo che egli non possa raggiungere”.
Finalmente Brahma sentì di aver trovato la soluzione al problema e disse:
“La nasconderemo profondamente dentro l’uomo stesso, abiterà proprio nel suo cuore: è l’unico posto in cui l’uomo non guarderà.

Antica leggenda Indù



Molto tempo fa ...

"Molto tempo fa il mondo era molto diverso da come lo vediamo ora. C'erano meno persone e si viveva più vicini alla terra. La gente conosceva il linguaggio della pioggia, dei raccolti e del Grande Creatore. Sapeva perfino parlare alle stelle e ai popoli del cielo. Era consapevole del fatto che la vita è sacra e proviene dal matrimonio tra Madre Terra e Padre Cielo. A quel tempo, c'era equilibrio e la gente era felice. (...)
Poi accadde qualcosa. Nessuno ne conosce il vero motivo, ma la gente cominciò a dimenticare la propria identità. In quel processo del dimenticare, tutti cominciarono a sentirsi separati - dalla terra, dal prossimo e perfino dal Creatore. Si erano perduti e andavano alla deriva nella vita, privi di direzione e senza un collegamento. In quella condizione di separatezza, cominciarono a credere di dover lottare per sopravvivere e per stare al mondo, di doversi difendere da quelle stesse forze che avevano dato loro la vita e con cui avevano imparato a convivere in armonia e fiducia. Ben presto, tutta la loro energia confluì nello sforzo di proteggersi dal mondo esterno, anzichè di fare pace col loro mondo interiore. (...)
Anche se avevano dimenticato chi erano, il dono lasciatogli dai loro avi era rimasto in loro. Gli restava dentro ancora vivo, un ricordo. Nei loro sogni, di notte, sapevano di avere il potere di guarire i loro corpi, di far cadere la pioggia quando ne avevano bisogno e di parlare con gli antenati. Sapevano di essere in grado in qualche modo, di ritrovare il loro posto nell'ambiente naturale. Mentre cercavano di ricordare chi fossero, cominciarono a costruire all'esterno di sé le cose che si collegavano alla loro identità interiore. Col passare del tempo fecero persino delle macchine capaci di guarirli, realizzarono sostanze chimiche per far crescere i raccolti e tesero lunghi fili per comunicare a distanza. Più si allontanavano dal potere interiore, più nelle loro vite si accumulavano tutte le cose che, secondo loro, potevano dare la felicità."
(...)

"Come va a finire il tuo racconto?" chiesi al saggio. "Alla fine la gente riuscì a recuperare il potere personale e a ritrovare la propria identità?"
Ormai il sole era scomparso dietro le pareti rocciose del canyon e finalmente potevo vedere il volto di chi mi parlava. Ritto davanti a me, dopo aver udito la domanda l'uomo dalla carnagione abbronzata fece un ampio sorriso. Rimase in silenzio per un momento, poi sussurrò: "Nessuno lo sa, perchè la storia non è ancora finita. Il popolo che ha smarrito se stesso era quello dei nostri antenati e noi siamo quelli che scriveranno la parola fine. Lei che ne pensa...?".

(Tratto da "La Matrix Divina" di Gregg Braden)



Uccelli di rovo


« Una leggenda narra di un uccello che canta una sola volta nella vita. Da quando lascia il nido, cerca disperatamente un grande rovo e non ha pace fino a che non l'ha trovato. Solo allora canta, più soavemente di ogni altra creatura. Ma cantando, precipita sulla spina più lunga e affilata del rovo. Mentre sta morendo però vince il tormento atroce della sua agonia e supera con la sua melodia l'allodola e l'usignolo. Il mondo intero si ferma e tace per ascoltarlo e Dio sorride lassù in Paradiso. Perché alla perfezione si arriva soltanto a prezzo di grandi sofferenze. Così dice la leggenda »

(Tratto da "Uccelli di Rovo" di Collen McCullough)


L'abbraccio dell'orso


Un uomo molto giovane aveva appena avuto un figlio e viveva per la prima volta l'esperienza della paternità. Nel suo cuore regnavano la gioia e l'amore, che scorrevano a fiumi dentro di lui.
Un giorno gli venne voglia di entrare in contatto con la natura perché, da quando era nato il suo bimbo, vedeva tutto bello e perfino il rumore di una foglia che cadeva gli sembrava musica. Decise quindi di andare nel bosco per goderne tutta la bellezza e sentire il canto degli uccelli. Camminava placidamente respirando l’umidità che c’è in quei posti quando, improvvisamente, vide un’aquila su un ramo, e fu sorpreso dalla sua bellezza. Anche l’aquila aveva avuto la gioia di avere dei piccoli, ed aveva intenzione di arrivare fino al fiume più vicino, catturare un pesce, e portarlo nel suo nido come cibo per i suoi aquilotti. Era una responsabilità molto grande allevare e formare i suoi piccoli, affrontando le sfide che la vita offre.
Nel notare la presenza dell’uomo, l’aquila lo guardò e gli chiese : “Dove vai buon uomo? Vedo nei tuoi occhi la gioia “l’uomo le rispose : “Sai mi è nato un figlio e sono venuto nel bosco perché sono felice. D'ora in poi lo proteggerò sempre, gli darò da mangiare, e non permetterò mai che soffra il freddo.
Giorno dopo giorno lo difenderò dai nemici che avrà e non lascerò mai affrontare situazioni difficili.
Non permetterò che mio figlio abbia le stesse difficoltà che ho avuto io, non dovrà mai sforzarsi per nessuna cosa. Come padre, sarò forte come un orso, e con la potenza delle mie braccia lo circonderò, l’abbraccerò e non permetterò mai che niente e nessuno possa turbarlo."
L’aquila lo ascoltava attonita, senza riuscire a credere a ciò che udiva. Poi lo guardò e gli disse: ”Ascoltami bene. Quando la natura mi ha dato l’ordine di covare le mie uova, di costruirmi un nido, confortevole, sicuro, protetto dai predatori, mi ha detto anche di mettere dei rami con molte spine, e sai perché? Perché quando i miei piccoli saranno forti per volare, farò sparire tutta la comodità delle piume. Non resistendo sulle spine, si vedranno costretti a costruirsi il proprio nido. Tutta la valle sarà per loro, a patto che realizzino con i loro sforzi l’aspirazione di conquistarla.
Se li abbracciassi, la loro aspirazione verrebbe frenata, e questo distruggerebbe in maniera irreversibile la loro individualità, ne farebbe degli individui indolenti senza coraggio di lottare, né gioia di vivere. Prima o poi piangerei per il mio errore, perché vedrei i miei aquilotti trasformati in ridicoli rappresentanti della loro specie, e mi riempirei di rimorso e gran vergogna nel vedere l’impossibilità di gioire per i loro trionfi. "Io, amico mio" disse l’aquila, "amo i miei figli più d’ogni altra cosa, però non sarò mai complice della loro superficialità e immaturità”.
L’aquila tacque, poi, con maestosità si alzò in volo per perdersi all’orizzonte. L’uomo tornandosene a casa, meditò sul terribile errore che avrebbe commesso dando a suo figlio l’abbraccio dell’orso.
Giunto a casa abbracciò il suo bimbo per alcuni secondi, poi si rese conto che il piccolo cominciava a muovere le gambe e braccia come per dimostrare il suo bisogno di libertà, senza che nessun orso protettivo lo ostacolasse.
Da quel giorno l'uomo cominciò a prepararsi per diventare il migliore dei padri.

(tratto da "Guida per genitori - PNL con i bambini" di Eric de la Parra Paz)



Qualche fiaba di Fedro



I vizi degli uomini


Giove ci impose due bisacce: ci diede dietro le spalle quella (la bisaccia) piena dei propri difetti, sospese davanti al nostro petto quella dei vizi altrui. Per questo motivo non possiamo vedere i nostri difetti; non appena gli altri sbagliano siamo giudici severi.


La volpe e la cicogna

Non si deve fare del male a nessuno: ma se qualcuno avrà recato danno, la favoletta insegna che deve essere ripagato con la stessa moneta. Si racconta che la volpe per prima avesse invitato a pranzo la cicogna e le avesse imbandito, in un piatto largo, una vivanda liquida, che la cicogna in nessun modo poté assaggiare, benché affamata. Ma questa, avendo a sua volta invitato la volpe, le pose davanti una bottiglia piena di cibo tritato: inserendovi il becco, essa stessa si sazia e tormenta con la fame l’invitata. E mentre quella leccava invano il collo della bottiglia, sappiamo che l’uccello migratore così parlò: «Ciascuno deve sopportare con rassegnazione gli esempi dati (agli altri)».


Il cervo alla fonte

Questo racconto afferma che spesso si scoprono più utili delle cose lodate quelle che tu hai disprezzato. Il cervo dopo aver bevuto si fermò presso la fonte e vide nell’acqua la sua immagine. Lì mentre ammirava le ramose corna e biasimava l’eccessiva sottigliezza delle gambe, all’improvviso atterrito dalle voci dei cacciatori cominciò a fuggire e ingannò i cani con un agile corsa. Allora il bosco accolse la bestia selvatica, nel quale trattenuto dalle corna impigliate cominciò a essere sbranato dai mortali morsi dei cani. Allora, morendo si dice che abbia levato questo grido: «Oh me infelice che ora finalmente capisco quanto mi furono utili quelle cose che avevo disprezzato, e quanto dispiacere mi avevano dato le cose che avevo lodato».


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